Non ci ho messo molto a capire che, volendo ambientare la mia storia ai giorni nostri, c’erano parti impossibili da ricalcare. Del resto, non sarei in grado di descrivere personaggi così lontani dal mio tempo e quindi ho cercato qualche soluzione alternativa. L’aspetto più arduo è stata sicuramente Bertha Mason. Ok, tutti abbiamo qualche segreto, va bene anche un terribile segreto, ma chi mai potrebbe tenere chiusa una moglie pazza nella torre del castello e vivere al piano di sotto facendo finta di nulla? Oggi sarebbe un caso agghiacciante da cronaca nera, non adatto all’eroe romantico di una storia d’amore. Mi piaceva però l’idea che in quel tenerla rinchiusa ci fosse anche una volontà di proteggerla e di rispettare una promessa fatta, non perché io creda che si debba rimanere legati a vita a qualcuno con cui non possiamo più essere felici, tutt’altro!, ma perché capisco che si possa tentare di comportarsi correttamente verso una persona cui si è voluto bene. Per questo ho immaginato che anche il “mio” Edoardo potesse agire così (con le dovute differenze, la “mia” Roberta è sana di mente e vive felice a casa propria), al di là dei fraintendimenti che ne possono scaturire. La difende perché ama ancora lei, quindi?
Essendo nata esattamente 141 anni dopo Charlotte Brontȅ, un ulteriore elemento che non comprendevo è perché per la vera Jane Eyre fosse così impossibile accettare l’amore di Rochester, che lui era pronto ad offrirle nonostante tutto (dove tutto significa appunto la pazza nella torre). Ai miei occhi la bigamia era ed è un problema inesistente: non serve mica un matrimonio per stare accanto alla persona amata! Ma per Jane Eyre l’aspetto religioso aveva un grande peso e non si sarebbe mai legata a un uomo che non fosse libero e infatti un’altra scena indimenticabile è proprio quella del matrimonio interrotto. La stessa Jane di fronte alla domanda di rito: qualcuno conosce un impedimento a questa unione? non si sarebbe aspettata alcuna replica! E invece ecco apparire l’ostacolo insormontabile, c’è già una moglie, di cui Rochester prova persino a negare l’esistenza. Eppure capisco cosa intende Jane quando dice: il signor Rochester non era più lo stesso agli occhi miei, perché non era tale quale io lo aveva creduto. Capisco che legarsi ad un uomo con troppi demoni possa terrorizzare, e soprattutto che possa essere difficile crederlo sincero quando si scopre ciò che aveva taciuto.
Il peggio però veniva dopo: la terza parte.
Se la prima correva via, mentre assistevo impietrita alle angherie subite da Jane in collegio, tifando disperatamente per lei, e nella seconda cominciavo a sognare, mentre scoprivo insieme a Jane l’impossibilità di resistere ai sentimenti, nella terza mi pareva di precipitare in un incubo. Mi riferisco a quei capitoli, lunghissimi, senza fine che mi accompagnavano verso l’inferno passo dopo passo. Le pagine in cui Jane prova a ricostruire la sua vita lontano da Rochester e arriva a prendere in considerazione l’idea di finire missionaria in India, insieme ad un uomo represso e gelido che non la ama e che non ama. Un uomo, il reverendo St.John, da cui è soggiogata ed al quale fatica ad opporsi, nonostante lui, dopo averla chiesta in moglie (più precisamente: dopo averle ordinato di sposarlo) le chiarisca di non cercare una donna da amare, per i suoi egoisti sensi maschili, ma piuttosto una compagna adatta alla missione, quindi una come lei,
praticamente un essere umano di serie B, fatta per il lavoro e non per l’amore. Chiedendole di rassegnarsi al suo ruolo di bruttina che non può ambire alla felicità. Non potevo immaginare condanna peggiore. Quando, come in delirio, Jane Eyre si sente chiamata dalla voce di Rochester e decide finalmente di andarlo a cercare, seguendo le ragioni insopprimibili del cuore, io rinascevo con lei.
PS Naturalmente il personaggio che corrisponde a St.John Rivers nel mio romanzo non è un prete e non ha alcuna intenzione di partire come missionario. Ma anche lui è davvero antipatico, sotto l’aspetto da bravo ragazzo.